mercoledì 30 gennaio 2013

La transvalutazione lessicale

 Diversi autori fanno notare che nei periodi critici il valore delle parole cambia per una specie di slittamento linguistico che si accompagna a una   sorta di sdrucciolamento estetico e  morale. Credo che questi anni della nostra vita siano un tempo siffatto. Faccio prima alcuni esempi ricavati dagli antichi, poi vengo a parlare di noi.
Tucidide racconta che  durante la stavsi" , la guerra civile di Corcira [1]
ci fu una  tranvalutazione generale e le stesse parole cambiarono il loro significato originario:" tovlma me;n ga;r ajlovgisto" ajndreiva filevtairo" ejnomivsqh" (III, 82, 4), infatti l'audacia irrazionale fu considerata coraggio devoto ai compagni 
di partito. 
Il medesimo fenomeno rileva Sallustio nel  tempo di Catilina.
 Nella monografia sulla congiura del 63 a. C. lo storiografo ricorda che Catone, parlando in senato dopo e 
contro Cesare, il quale aveva chiesto di punire i congiurati "solo" confiscando i loro beni e tenendoli prigionieri in catene nei municipi, denuncia questo cambiamento del valore delle parole:"iam pridem equidem nos vera vocabula rerum amisimus: quia bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur, eo res publica in extremo sita est " (52, 11), già da tempo veramente abbiamo perduto la verità nel nominare le cose: poiché essere prodighi dei beni altrui si chiama liberalità, l'audacia nel male, coraggio, perciò la repubblica è ridotta allo stremo.
Se passiamo dalla storiografia alla tragedia, la Fedra di Seneca cerca di  darsi coraggio per venire meno alla  fedeltà coniugale dicendo a se stessa: “ honesta quaedam scelera successus facit " (Fedra, v. 599), il successo rende certi delitti atti di virtù.
Concludo la rassegna dei testi con una tragedia di Shakespeare che non ignora né dimentica Seneca: nel Macbeth,  la moglie di Macduff, quando viene invitata a fuggire da un messaggero, prima che arrivino i sicari del sanguinario tiranno,  risponde: “Whither should I fly?-I have done no harm. But I remember now.- I am in this earthly world where to do harm-is often laudable; to do good, sometime-accounted dangerous folly” (IV, 2), dove dovrei scappare? Io non ho fatto del male. Ma ora ricordo. Io sono in questo basso mondo dove fare il male è spesso lodevole; fare il bene, talora è considerata pericolosa follia.
Ma ora, è già tempo, veniamo ai giorni nostri, e confrontiamoli con quelli pieni di speranze della gioventù che fece il ’68. Non so se era la meglio gioventù. Era comunque una gioventù che stava, si sentiva meglio.  Anche se poi le attese di allora sono state in massima parte frustrate. Noi ragazzi del ’68, quanti siamo ancora vivi, se non siamo proprio delle Silvie leopardiane, appunto perché, piuttosto attempati, respiriamo ancora, poco ci manca. Quasi tutte le nostre speranze infatti sono cadute.
Parto dunque da una parola che all’epoca era malfamata: moderato. “Tu sei un moderato” detto da una ragazza a un ragazzo era un rifiuto secco: significava per lo meno sei “un reazionario”. Ora quel significato si è ribaltato: adesso è un termine rassicurante, una qualifica positiva, anzi indispensabile all’identità di una persona per bene. Allora si rispondeva: “io moderato? Vuoi scherzare? Io sono più maoista di Mao”. Ora tutti si dichiarano moderati; nessuno è mai stato comunista, e se lo è stato fu in un altro paese e oltretutto quel giovane che errava non c’è più.
Borghese era un’altra offesa: significava nemico di classe, odioso a quelli politicamente corretti, uomo egoista e avido,  ignaro  della cultura, della bellezza,  mai allattato dalle Muse, mai scaldato dal più pazzo fuoco dell’arte. Don Milani prese parte a questa esecrazione scrivendo: ““Una classe che non ha esitato a scatenare il fascismo, il razzismo, la guerra, la disoccupazione. Se occorresse “cambiare tutto perché non cambi nulla” non esiterà a abbracciare il comunismo” [2].
All’epoca, tra noi “sessantottini”,  ci si vergognava di essere borghesi: ricordo che nel marzo del ’68 tornai a Bologna da una settimana in montagna. Ero  molto abbronzato, e, quando entrai nell’aula di un’assemblea studentesca, le compagne mi domandarono con aria inquisitoria dove fossi andato a prendere tutto quel colore. Risposi: a Cuba “a tagliare la canna da zucchero con i nostri compagni lavoratori”.
Non so se ci credettero, ma se avessi detto la verità mi avrebbero escluso dal giro.
Oggi, mentre gran parte della popolazione, scende i gradini della scala sociale degradandosi nella povertà, tutti vorrebbero essere considerati borghesi: conosco dei poveracci che si indebitano per mandare i figli a scuola di nuoto, di vela, magari di equitazione anche se i loro bambini sono negati a questi sport. Lo fanno per poterlo esibire e farsi credere appunto borghesi.
Poi c’era una volta la libertà. Significava prima di tutto, libertà di pensiero, libertà di parola, parresìa, libertà politica insomma. Quando eravamo ancora più giovani i professori fascisti ci dicevano: a scuola non si fa politica.
Tucidide per primo  mi aveva emancipato da tale servitù insegnandomi che Pericle disse: "movnoi ga;r tovn te mhde;n tw'nde metevconta oujk ajpravgmona, ajll j ajcrei'on nomivzomen" (Storie, II 40, 2), siamo i soli a considerare non pacifico, ma inutile chi non partecipa alla vita politica.
Libertà era dunque prima di tutto possibilità di occuparsi della vita della polis.
Ora questa parola sacra è diventata esecrabile: adesso libertà vuol dire licenza di fare il proprio comodo, anche danneggiando il prossimo e il meno vicino. Insomma cercando di annichilire chiunque ostacoli il nostro egoismo.
Un’altra parola chiave è “rispetto”. Respicio significa osservo: rispettare vuol dire osservare una persona senza brama di possederla, di dominarla, di sottometterla.
Ora questa parola si è degradata in viltà di fronte ai luoghi comuni di moda, in reticenza davanti alle assurdità che ogni dì e ogni notte giornali e televisioni diffondono. Chi denuncia le storture, chi è fuori dal coro della pubblicità e della propaganda, è trattato come un delinquente o un pazzo.
Poi: l’amore che una volta tendeva a Dio, o a una donna, o a un uomo, o all’umanità, adesso ha come obiettivo principale il denaro.
L’amore per l’altro sesso, particolarmente quello delle donne per gli uomini, ora, quando c’è è simile a quello dei lupi per gli agnelli.
E ancora: la pace che era conseguenza della liberazione dalla tirannide e madre del benessere, è tornata a essere quella degli imperialisti romani denunciati da Calgago, il Caledone ribelle: “ Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt.  Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant "  (30), ladroni del mondo, dopo che alle loro devastazioni totali vennero meno le terre, frugano il mare: se il nemico è ricco, avidi, se povero, tracotanti, essi che né l'Oriente né l'Occidente potrebbe saziare: soli tra tutti bramano i mezzi e la loro mancanza con pari passione.  Rubare, massacrare, rapire con nome falso chiamano impero e dove fanno il deserto lo chiamano pace.
Si continua a commemorare il genocidio subito dagli Ebrei, giustamente, ma sarebbe altresì giusto ricordarne, biasimarne altri più recenti, e fermare quelli in corso.
Concludo con la parola uguaglianza. L’uguaglianza tra gli umani è stata una speranza, una meta da raggiungere per tante religioni, filosofie, costituzioni politiche.  Ora essa è un’utopia irrealizzabile per alcuni, una bestemmia per altri. Eppure se non c’è una sostanziale uguaglianza, non c’è vera democrazia. Adesso si accetta che un manager guadagni centinaia e centinaia di volte più di un operaio come fatto naturale. Quindi l’uguaglianza è qualche cosa di contro natura nella mente di chi considera secondo natura tali diversità abnormi.
Ecco: questi sono veri e propri ribaltamenti lessicali cui corrispondono transvalutazioni estetiche e morali
Se nichilismo significa “che i valori supremi si svalorizzano [3],
queste svalutazioni semantiche porterà a un nichilismo linguistico,
o per lo meno a quel parlare male che viene dal pensare male e che, a detta di Platone, fa male all’anima [4].

Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it  Bologna 30 gennaio 2013




[1]  427-425 a. C.
[2] La frase fra virgolette è nel romanzo “Il Gattopardo”. La dice un principe siciliano all’arrivo dei garibaldini (1860). Poi fa il garibaldino anche lui e così non perde né i soldi né il potere.  Scuola di Barbiana. Lettera a una professoressa, p. 74.
[3] Nietzsche,  Frammenti postumi, autunno 1887, 9 (35).
[4] Lo afferma Socrate  nel Fedone :" euj ga;r i[sqia[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev"[4], ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.

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