mercoledì 24 aprile 2024

“il Buon Esempio”. Conferenza a Pesaro

https://fb.me/e/3Gq8ncOTM

Venerdì 26 aprile alle ore 19:00
nella Galleria degli Specchi dell’ALEXANDER MUSEUM PALACE HOTEL di Pesaro
seconda conferenza:
“il Buon Esempio”
Relatore: Prof. Giovanni Ghiselli
Ingresso libero 



Euripide Ippolito X. Dialogo Fedra –Nutrice vv. 311-337.


Fedra chede alla nutrice che ha nominato Ippolito di non farlo più se non vuole rovinarla. Anche il nome di questo ragazzo deve rientrare nel tabù.

L’anziana riconosce che la testa della sua pupilla funziona ancora dato che è in grado di parlare, però  le rinfaccia e disapprova il fatto che si lascia morire  e non vuole giovare ai figli- ouj qevlei~-pai`da~ ojnh`sai- 313-314.

Fedra dichiara amore ai figli ma lamenta di essere sconvolta da una tempesta, una tempesta scatenata nel buio della sorte- ejn tuvch/ ceivmavzomai- 315.

La tuvch turbinosa di Euripide ha acquistato potere rispetto agli dèi olimpici: è il caos che si riaffaccia e recupera terreno sul cosmo.

La nutrice teme che Fedra abbia ucciso qualcuno e le domanda se abbia le mani pure dal sangue.

Fedra non è Medea né Lady Macbeth, non è una sanguinaria, anzi è una mite che prefigura tale tipo dostoevskiano, e risponde con questo verso chiave: “Cei`re~ me;n aJgnaiv, frh;n d’ e[cei mivasmav ti- 317  le mani sono pure ma il cuore è contaminato.

 

Ora si apre il problema che occupa le vicende dell’Edipo re di Sofocle: chi è il diffusore del  mivasma? Nell’Edipo re è lo stesso re di Tebe qui nell’Ippolito è addirittura Cipride.

 

.La nutrice domanda se la contaminazione dipenda da un maleficio indotto da uno dei nemici di Fedra319.

 Questa risponde che è un amico a distruggere senza volere lei che non vuole-oujc ejkou`san oujc eJkwvn- L’amico non vuole farle il male e lei non vuole subirlo. E’ il destino dunque.

E’ stato Teseo dunque che ha errato commettendo un errore conto di te? Domanda l’anziana

In questo verso 320 c’è una figura erimololgica- hJmavrthken aJmartivan-

L’errare e l’errore hanno la stessa radice.

 La tuvch  è la stessa persona che agisce e pure quella che subisce

Fedra risponde che non vorrebbe mai fargli del male.

 La nutrice vuole sapere qual è il nocciolo della questione, to; deinovn 322 la cosa tremenda che la spinge a morire.

 

Cfr. lo squillo iniziale del primo stasimo dell’Antigone (vv. 331 sgg.)

 

Fedra seguita a nascondersi: “lascia che io sbagli tanto non sbaglio contro di te”.- Torna per altre due volte il verbo ajmartavnw. Un’ossessione di Fedra

La nutrice riconosce che Fedra non commette una colpa volontaria ma sbaglia lasciandola indietro, senza rivelarle il male.

Quindi stringe la mano della pupilla la quale le domanda se voglia costringerla afferandola- tiv dra`/~  biazh/ ;325. E’ la violenza della premura che però Fedra respinge. L’anziana non lascia la presa affettuosa, anzi dice che afferrerà anche le ginocchia e non lascerà mai la sua figlioccia.

Fedra avverte questa donna cui vuole bene che se saprà di cosa si tratta vedrà che sono mali su mali anche per lei- Kavk j  ---kakav sono le due parole che aprono e chiudono il verso 327

Cfr- Erodoto:  colpo e contraccolpo, e pena su pena si posa" (kai; tuvpo" ajntivtupo", kai; ph'm  j ejp  j phvmati kei'tai,  I, 67, 4).

Piena di amore davvero materno è la risposta della nutrice: “quale male per me più grande che non averti più?” 328

Fedra avverte la nutrice che facendola parlare la uccide, eppure la morte le fa onore timh;n fevrei 329.

Se l’onore è salvo perché nascondi delle cose buone mentre io ti supplico? Obietta l’anziana

In effetti da cose turpi dobbiamo cercare di ricavare effetti nobili-331 risponde Fedra

E’una richiesta di aiuto alla maestra da parte dell’allieva prossima a confessare

“Dunque parlando apparirai più degna di onore” fa la nutrice

Fedra chiede alla donna di lasciarle la mano e scostarsi

Ma l’anziana dice che  non lo fa siccome non ha ricevuto dalla giovane il dono dovuto.

Fedra le promette di darglielo dwvsw poiché rispetta e venera la mano di questa cara donna.

Questa promette di tacere perché da adesso la parola è di Fedra- so;~ ga;r lovgo~ 336.

Una lezione educativa per i beceri e le becere della televisione.

Fedra prepara la nutrice alla rivelazione dolorosa: “ o madre sventurata, quale amore amasti!” 337

La madre qui invocata è Pasife e l’amore nefando ricordato è il connubio con il toro. Anche la madre di Fedra dunque fu condannata a una passione maledetta da Afrodite o da Posidone. Esistono versioni differenti. Afrodite si sarebbe offesa  perché il Sole padre di Pasife aveva denunciato a Efesto l’adulterio della dea con Ares. Sicché la divinità adultera  avrebbe spinto Pasife a un adulterio abominevole (Servio in Virgilio, Eneide, 6, 14).

Secondo Apollodoro invece fu Poseidone, che non aveva ricevuto il sacrificio di un toro eminente- tau`ro~ diaprephv~- pomessogli da Minosse, a indurre Pasife a un rapporto sessuale con questa bestia bella assai (Apollodoro)

 

Bologna 24 aprile 2024 ore 19, 39 giovanni ghiselli

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errata corrige.

errata corrige: il sindacalista era Maurizio Landini


Bologna 24 aprile 2024 ore 18, 32

giovanni ghiselli

Ifigenia CXLVI. L’apoteosi di Ifigenia. L’identità ritrovata.


 

Quel giorno feci quanto dovevo a me stesso: camminai, corsi, nuotai,  mi abbronzai, lessi diverse pagine dei Guermantes per poterne parlare presto con lei. Mangiai poco. Per tenere a bada la fame,  bevvi molta acqua e alcuni caffè. Verso le sei, da occidente, arrivò un vento fresco sulla piscina di Debrecen.. Lo sentìi profumato della mia donna. Faceva già presentire l’autunno e pregustarne le gioie. Era il presagio di una stagione felice. Pensavo ai nostri incontri in casa mia dove la ragazza arrivava sul calar delle tenebre lunghe di novembre, verso le cinque del pomeriggio. Dopo pochi minuti era seduta sui talloni, nel nostro letto, nuda, sorridente e luminosa come il sole sul mare greco dove nacque Afrodite, la dea dal dolce sorriso. La creatura mia splendidissima profumava come le rose che nella stagione bella rallegrano perfino i cortili più bui e miserandi. Era bella tutta, la mia giovane donna. L’alito, la saliva, il sangue mestruale, ogni cosa era gradevole e buona in siffatta creatura. “Le tue vene, come cespugli di rose, trepidano continuamente, ha scritte in un’ode Attila Jozsef, il più bravo, il più caro poeta ungherese del Novecento: “Vérköreid, miként a rózsabokrok reszketnek szüntelen[1]

Le foglie oramai rinsecchite e ingiallite sussurravano buoni presagi. Nella vasca più grande dove alcuni adolescenti giocavano a palla, l’acqua trepidante nel vento, e schizzata fuori dai ragazzi in miriadi di gocce, rifletteva i raggi del sole moltiplicandoli in un luccichio festivo. La piscina sembrava sorvolata da sciami di farfalline gialle agitate da un impulso amoroso. Poco dopo giunsero nuvole umide che nascosero il  sole cadente.

Solitamente vedere i primi segnali dell’equinozio acquoso che offusca i colori del cielo e del mare mi rende inquieto.

Il due agosto del 1979 invece ne fui del tutto felice poiché la stagione dolente significava per me il rinnovarsi dell’amore con Ifigenia che un giorno di novembre del mirabile anno passato era venuta in camera mia, nel nostro recinto sacro, nel tempio dell’amore,  trafelata e gioiosa, con la chioma bruna bruna screziata di neve bianchissima e un sorriso radioso negli occhi, nella bocca, in tutta la sua persona.

Ogni tanto il sole estremo spuntava con dura fatica da quelle nuvole dense.

Se l’autunno era già vicino, non erano più tanto lontani i salti gioiosi, mai al di sotto della sufficienza: tre tripudi; anzi, molto spesso ben al di sopra.

 Erano prossime a rinnovarsi le sacrosante orge celebrate in onore del dio Eros cui eravamo entrambi devoti.

 Allora mettevamo l’amore sopra ogni cosa.

 La vacanza crudele che mi teneva lontano da lei aveva superato la cresta montuosa, lo spatiacque della metà. Mi aspettava. Mi amava. “Zazzì”, come annunciava il telegramma messaggero di amore.  Mi avrebbe amato per sempre, e anche se fosse sparita, sarei rimasto a lungo con lei scrivendo la storia del nostro amore. Quella donna era lo scopo della mia vita, siccome i fini veri di tutto quanto facevo, li avevo individuati stando con lei, per essere degno di lei.

Dovevo continuare a  educare, a imparare e amare. Mantenere la forma migliore studiando e facendo esercizio fisico. Un’ascesi pagana. Sui venti anni mi vergognavo di essere tanto diverso dagli altri, dai più, e magari cercavo di camuffarmi per assimilarmi a loro, sempre  senza successo e con tanto dolore; poi altre donne benedette, come le due Elene di cui ho già raccontato in questo epos erotico, mi avevano autorizzato a essere me stesso, e, dopo tali incoraggiamenti, ero diventato fiero della mia identità rara, molto fiero, sicuro e felice di non essere uno che vive di luoghi comuni, che li ripete annoiando perfino se stesso, e di sera gioca a carte o guarda le partite di calcio bevendo birra. Costoro fanno l’amore due volte alla settimana, benissimo che vada. E da giovani. Magari arrivano a tre volte  con un’ amante o un amante, poi dicono menzogne al coniuge. Tutto questo fa schifo, eppure durante la crisi quasi mortale dei miei sciagurati ventanni tale masnada mi era sembrata fatta di persone normali. Per quanti sforzi facessi, non riuscivo a essere come loro. Era gente mortificata che mi mortificava.

 Poi, grazie alle donne e al movimento liberatòrio del ’68,  avevo ritrovato la mia identità di giovane studioso, sportivo, strano, curioso e amantissimo della vita. Dovevo realizzare al massimo la mia vita mortale secondo l’identità mia, nella maniera più forte e pù nobile. Un’identità non gregaria, non presa a prestito.

Il sole, sbucando ancora una volta dalle nuvole acquose,  simile a una palla cerchiata da lamine d’oro, balzava su un ramo rotto, aguzzo, ma non ne veniva forato, come l’anima mia resa impenetrabile dal male e dal dolore. Mi aspettavano gioie e successi.

 

Bologna 24 aprile 2024 ore 10, 55 giovanni ghiselli      

 

 

 



[1] Oda 4, 9-10

Ifigenia CXLV. Il telegramma. La gioia.


 

Il giorno seguente, martedì 2 agosto, finite le ore di lezione, tornai in collegio e trovai un telegramma che riattizzò l’ardore amoroso e mi spinse di nuovo nelle reti inestricabili della giovane compagna di letto[1], fiorente donna italiana.

Avevo i pensieri stravolti e pure l’aspetto, come la sera oramai lontanissima del luglio del 1966, quando arrivai a Debrecen per la prima volta.

Ma quella mattina di agosto, tredici anni e venti giorni più tardi, lo stravolgimento volgeva la mia persona cangiante al lato più bello

Con l’anima e la mente in tumulto, lessi queste parole:

Ti amo. Mi manchi. Mi fido. Fidati. Zazzì. Un bacio. Tua Ifigenia. Aspetta mio espresso. Ifigenia”.

Zazzì nel nostro gergo di coppia significava quello che tu immagini già,  lettore malizioso: ho una voglia bestiale di fare l’amore con te: almeno tre volte. Iterazione di un concubitus vagus ma non prohibitus[2]  una trilogia amorosa che negli otto mesi precedenti noi due consideravamo  appena sufficiente.

Misi in tasca il foglio verde e andai a camminare nell’orto botanico dove il destino mi aveva più volte indicato con dito diritto i suoi decreti e il prosieguo del mio cammino spesso tortuoso e accidentato . Ma in quel momento non vedevo ostacoli né vie oscure, erte o arte: nulla di inameno turbava la gioia che mi aveva inondato.  Il luogo era tutto sacro e pieno di dèi. 

La multiforme vegetazione era viva e luminosa : ogni pianta, ogni cespuglio, ogni fiore e filo di erba mi parlava di amore, di felicità, di poesia; la Jiuniperus communis, una specie di edera, aveva qualcosa di antico, misterioso e fatato: volevo incoronarmene come facevano le baccanti durante le sante orge in onore di Dioniso. Sulla strada al di là della rete passavano alcuni dei “simpatici burattini”  menzionati da Cornelia la sera prima. Li salutai con la mano e mormorai: “stefanou'sqe kissw'/[3].

 Danilo, mezzo morto di sete, contraccambiò il saluto: mi lanciò uno sguardo desolato mentre capovolgeva una bottiglia di sangue di toro già vuota. Disse che stava andando a ricaricarla di vita, cara da Dio!

 Ezio a sua volta mosse il piede rapido, a balzi, come una menade[4]. Alfredo domandò: “Chi è per strada, chi è per strada, chi?”[5]

“Ifigenia, Ifigenia,  evoè!”, risposi.

Il dio Dioniso mi stava approvando.

Passati gli amici  bizzarri e cari, tornai a osservare le piante strane: la tunica saxifragata aveva qualcosa di carneo e voluttuoso: l’accarezzai come fosse stata una mano di Ifigenia. Avrei voluto pure baciarla più volte, ma passarono due anziani signori, probabilmente docenti della Nyári Egyetem e, vedendomi inginocchiato, uno disse all’altro: “guarda quell’uomo pieno di alcol, e non è ancora mezzogiorno! Vergogna!”

In effetti avevo gli occhi velati di lacrime. Quando i due accigliati Catoni, tristes et superciliosi alienae vitae censores,[6] furono passati, mi stesi a terra e gridai: “ecco io mi prostro, Ifigenia, al suolo” [7].

Quindi mi rovesciai, beato e da resupino[8], e alzai gli occhi all’alta chioma di una quercus robur   antica e maestosa come quelle sacre del santuario di Dodona sorvolata da colombe profetiche: le sue fronde, sonore al vento quasi fresco mi sembrarono preannunciare un altro autunno di gioia con la mia baccante splendidissima e santa. Promisi che sarei arrivato in bicicletta all’antichissimo oracolo. Avrei sciolto quel voto dodici anni più tardi osservando i voli degli alati diretti da Dio e interpretandoli per decifrare la direzione del “grande” amore di turno, un’altra collega mal maritata .

Ma quel 2 agosto pensavo:  “Sei tu, ifigenia, la donna migliore dell’universo. Il poco male che c’è stato tra noi, sparirà, il tanto bene rimarrà eternamente vivo su questa terra. Creatura mia, figlia, amante,  madre, sorella, ti amo come amo la vita da quando tu mi hai donato la tua”

Non avevo fame siccome ero pieno di gioia e andai in piscina per digerirla e assimilarla tutta.

Bologna 24 aprile  2024 ore 10, 10 giovanni ghiselli

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[1] Nell'Agamennone  di Eschilo la moglie fedifraga e assassina viene denominata con un vocabolo che contiene il letto (eujnhv) poiché queste grandi tragedie matrimoniali hanno sempre a che fare con il letto:"ajll& a[rku" hJ xuvneuno", hJ xunaitiva-fovnou", vv. 1116-1117, ma è una rete la compagna di letto, la complice dell'assassinio.

 

[2] Cfr. Orazio  che nell’Ars poetica scrive:

Fuit haec sapientia quondam,

publica privatis secernere, sacra profanis,

concubitu prohibere vago, dare iura maritis,

Oppida moliri, leges incidere ligno (Orazio, Ars poetica, 396-399)

 Fu questa un tempo la sapienza, separare il pubblico dal privato, il sacro dal profano, distogliere dagli accoppiamenti sregolati, imporre i doveri ai coniugi, e fondare città, incidere le leggi nel legno.

[3] Euripide, Baccanti, 106, incoronatevi con l’edera

[4] Cfr. Euripide, Baccanti,  166

[5] Euripide, Baccanti, 68

[6] Cfr. Seneca: “istos tristes et superciliosos alienae vitae censores, suae hostes, publicos paedagogos , assis ne feceris (Ep. 123, 11), questi austeri e accigliati censori della vita altrui, nemici della propria, questi pubblici pedagoghi non stimarli un soldo.

 

[7] Cfr.Lleopardi, All’Italia, 127-128

[8] Cfr. Gozzano, Totò Merumeni

La Vita si ritolse tutte le sue promesse.

Egli sognò per anni l’Amore che non venne,

sognò pel suo martirio attrici e principesse

40

ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.

Quando la casa dorme, la giovanetta scalza,

fresca come una prugna al gelo mattutino,

giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza

su lui che la possiede, beato e resupino...

 

 

L'intellettuale, il sindacalista e i finti trionfi politici


 

Ieri sera ho visto Saviano e Salvini nella trasmissione di Floris.

Il primo ha situato più volte se stesso nella categoria degli intellettuali. Ha parlato delle proprie difficoltà e del proprio coraggio nell’affrontarle.  Certamente lui non è solo: è protetto e ha degli aiuti.

Sui lavoratori poveri da meno di 10 euro all’ora, sui disoccupati, su chi non ha protezioni, non può pagarsi l’affitto, le cure mediche, gli studi, nemmeno una parola.

 

Dopo di lui è arrivato  Salvini che nessuno considera un intellettuale ma parla della povertà e la condanna e propone rimedi. Preferisco questo a quello.

 

Io ho passato e ancora passo la vita a studiare dunque, come scrivevo ieri, sono uno studioso soprattutto di letteratura antica e moderna comparate, e mi occupo di politica ossia dei problemi della polis, della comunità, dei cittadini impoveriti di mezzi per vivere decentemente, compresa la cultura.

Cittadini che non vannio a votare siccome trascurati da chi chiede i voti oltre che ignorati dagli “intellettuali”.

 

Ora gira la menzogna delle elezioni vinte dalla destra nella nobile e antica Lucania dove la maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto non è andata a votare. E’ la maggioranza  che ha vinto le elezioni.

 

Povertà diffusa dunque e rifiuto della politica prevalente.

Intanto certi “intellettuali”  continuano a blaterare, a pavoneggiarsi e nello stesso tempo a fare le vittime, mentre i politici, nemmeno presi in considerazione dalla maggioranza dei cittadini, celebrano dei finti trionfi.

Questa è la situazione reale. Il resto sono chiacchiere pure troppo remunerate.

Contribuisco al 25 aprile con questo post.

 

 

Bologna 24 aprile 2024 ore 9, 41

 

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martedì 23 aprile 2024

Euripide Ippolito IX. Il dolore straziante provoca mutismo e immobilità


 

La nutrice chiude la seconda scena del primo episodio con 16 trimetri giambici

 

La nutrice – mamma-  spinge Fedra a confidarsi dicendole che se  la sua malattia è uno dei mali indicibili- ti tw`n ajporrhvtwn kakw`n- 293 eccoci qui noi  donne pronte a rimediare-forse pensa a qualche male segreto e vergognoso come essere incinta di un ganzo-; se invece l’accidente si può rendere noto ai maschi, parla perché questa faccenda sia rivelata ai medici.

Tuttora si dice, o almeno anni fa ho sentito dire-affari di donne.- magari con riferimento alle mestruazioni come se fossero innominabili.

 

Fedra comunque continua a tacere e la nutrice la sgrida chiamandola tevknon  297 figlia come se fosse una bambina che fa i capricci-oujk ejcrh`n siga`n- non avresti dovuto tacere già  prima, e ora non puoi tacere: devi confutarmi se dico male, oppure convenire con le mie parole se sono dette bene. 298-299

Ma Fedra non risponde e rimane immobile: “di’ qualche cosa, guarda di qua- Oh me sventurata”, implora l’anziana.

 

Anche Medea  viene descritta dalla nutrice come donna ostinatamente  chiusa nel dolore

“E Medea, l'infelice donna oltraggiata,

 rinfaccia con grida i giuramenti, reclama il sommo impegno

 della mano destra, e chiama gli dèi a testimoni

di quale contraccambio ella riceva da Giasone.

E giace senza cibo- kei`tai  d j a[sito~- , abbandonato il corpo alle sofferenze,

struggendo tutto il tempo in lacrime

da quando si è accorta di ricevere torto dal marito,

senza sollevare lo sguardo né staccare il volto

da terra; e, come rupe, o marina

onda wJ~ de; pevtro~  h] qalavssio~ kluvdwn , ascolta gli amici consigliata,

tranne quando, girato il bianchissimo collo,

rivolta a se stessa, rimpiange il padre suo

e la terra e la casa che tradì nel venir via

con un uomo che ora la tiene in dispregio (Euripide, Medea, 20- 33)

Nell'Edipo a Colono , Sofocle  paragona il vecchio cieco, l' indomito punitore di se stesso, a una scogliera boreale  che, battuta dalle onde invernali da ogni lato, viene incalzata senza tregua:"pavntoqen bovreio" w{" ti" ajkta;-kumatoplh;x ceimeriva klonei'tai"(vv.1240-1241).

Come la rupe anche l’onda (kluvdwn, Medea, v. 29) significa insensibilità[1]; ebbene l’immagine dell’ Edipo a Colono , al pari di questa della Medea , significano il colmo delle sventure e della resistenza.

 

Torniamo all’Ippolito.

   Quindi la nutrice si rivolge alle coreute in cerca di aiuto

“Inutilmente, o donne, soffriamo queste pene

Siamo lontane quanto prima: né infatti allora

Si lasciava intenerire dalle mie parole costei né ora dà retta” (301-303)

Poi si rivolge di nuovo a Fedra:

“Ma sappi tuttavia: di fronte a questa situazione sii pure più crudele

del mare- se morrai tradendo i tuoi

figli che non avranno gran parte del palazzo paterno,

pensa alla signora equestre, l’Amazone (Ippolita la madre del protagonista),

che ha generato un padrone per i tuoi figli

un bastardo che pensa alla legittimità. Tu lo conosci bene

Ippolito- 304- 310

Il v. 310 è diviso in tre parti: la nutrice ha detto Ippolito, Fedra dice Ahimé e  la nutrice le domanda: “Queste parole ti toccano?”

Il mare crudele fa pensare a Esiodo che scrive è tremendo morire tra le onde: deino;n d j ejsti; qanei'n meta; kuvmasin", Opere e giorni,  687.

O anche a  Verga che fa dire a Mena "il mare è amaro ripeteva ed il marinaio muore in mare"( I Malavoglia p. 98).

Ma si potrebbe tradurre e forse meglio con inflessibile  e allora si puà pensare a Svevo: in Senilità “l’abito letterario” fa vedere a Emilio Brentani nel moto delle onde il correlativo oggettivo della “impassibilità del proprio destino. Non v’era colpa, per quanto ci fosse tanto danno.” Capitolo XII.

 

Bologna 23 aprile 2024 ore 19, 24 giovanni ghiselli

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[1] Cfr. Andromaca, vv. 537-538: Menelao dice al figlio di Andromaca che lo supplica: “una rupe marina (aJlivan pevtran) o un’onda (h] ku'ma) tu supplichi con le tue preghiere. Significa, ovviamente, un supplicare vano. E’ il solito “odioso” Menelao di Euripide

Ifigenia CXLIV- Cornelia la Berlinese, l’ ottima amica dai buoni consigli.


 

 

“La persona buona è anche intelligente-continuò Cordelia- ed è pure bella. L’avevano capito i maestri greci che ci hanno insegnato a non separare il buono dal bello con la loro kalokajgaqiva”.

 

“Tu ne sei l’incarnazione Cornelia. Sei cresciuta molto dall’ultima volta che abbiamo parlato. Hai fatto letture ottime vedo”.

 

“Sì anche. Ma quanto ti ho detto l’ho capito  attraverso l’esperienza, gli sbagli, il dolore”.

 

Tw'/ pavqei mavqo"[1], sussurrai con l’atteggiamento inelegante da arricchito culturale che non avevo superato ancora. Nemmeno ora, non del tutto: mi piace pure troppo citare, anche per ricordare.

 

“Per come ti conosco-riprese Cornelia-comprendo che tu senti la necessità di una persona buona e intelligente. Tu sei una persona autentica, pulita che non gioca con il cuore degli altri, e, per vivere senza dolore o soffrendo il meno possibile, hai bisogno di una donna della tua levatura spirituale. Me l’hai suggerito tu stesso; non te ne sei accorto? Se la tua fiorente ragazza italiana è bella anche moralmente, se è buona, tiella da conto, vivici insieme, fai dei figli con lei. Meriterebbero senz’altro la vita tali bambini. Non impuntarti se da qualche giorno accidentalmente non scrive. Il tempo chiarirà tutto. Se  non è buona, quindi nemmeno intelligente né davvero bella, lasciala perdere. Dai retta a una amica storica oramai, e anche, spero, cara. Io ho fatto l’errore di sposare un tale che appariva attrente e spiritoso. Ma poi, convivendo, ho capito quanto era egoista, cattivo, cretino quel tale e dopo un paio di mesi mi ripugnava”.

 

“Brava Cornelia, brava. Sei diventata una donna di formato speciale”.

 

Mi piaceva assai. Mi era venuta voglia di fare l’amore con lei, ma non mi era ancora chiaro se Ifigenia fosse malvagia, perciò non volevo rompere il patto di fedeltà concordato al momento della partenza dalle amabili sponde adriatiche.

 

“Anche tu sei speciale” mi contraccambiò Cornelia. “Gli altri che abbiamo qui intorno in confronto a te sono dei burattini simpatici, bene che vada”.

 

In effetti uno saltava da un tavolo all’altro scolando tutte le bottiglie di sangue di toro ancora inesaurite, mentre un altro si avvicinava a ogni ragazza beccheggiando e domandava: “vuoi ballare, vuoi ballare?” senza lasciarsi smontare dai ripetuti dinieghi.

 

Salutai dunque Cornelia e gli altri amici storici delle estati debrecine e tornai in collegio da solo. Ero contento, andavo d’accordo con me stesso poiché Cornelia mi aveva svelato una parte di me che mi piaceva molto e si confaceva alla persona buona che volevo diventare.

Mentre fiancheggiavo l’orto botanico dagli alberi strani, poi quando procedevo sotto le querce antiche, di maestà dodonèa, vidi l’immagine di Helena vestita di colore bianchissimo[2]: mi sorrideva con lieta naturalezza e mi suggeriva di non dare peso soverchio, opprimente alla posta non arrivata. Contraccambiai il sorriso, non senza letizia.

Del resto mi vennero in mente le parole del tutto chiare che la bella donna mi scrisse quando fu arrivata in Finlandia. Il confronto era schiacciava Ifigenia. Amare è ricordare, come conoscere. E pure disamorarsi è ricordare: rammentare com’era l’amore quando funzionava bene, quanta allegria e felicità creava dalla mattina alla sera.

 

Bologna 23 aprile 2024 ore 17, 22 giovanni ghiselli

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[1] Eschilo, Agamennone, 177, attraverso la sofferenza, la comprensione

[2] Cfr. la storia di Elena presente nel blog

Ifigenia CXLIII Debrecen primo agosto. Cornelia, la Berlinese buona e intelligente.

 

Silvia mi chiese se volevo uscire con lei. Presi tempo e se ne andò. Mi appoggiai alla ringhiera e mi diedi a osservare i giovani che ballavano,, oppure volgevo lo sguardo dalla parte della pista dove correvo ogni giorno sul far della sera con energia, per trovare un motivo di  consolazione e una valvola di sfogoall’angoscia che mi assaliva ogni giorno.

Pensavo: “Perché Ifigenia non scrive, non telegrafa, non si fa viva? Da che cosa è occupata? Da quale vortice di piaceri è risucchiata e trascinata chissà dove? Oggi è il primo di agosto: sono passati già dieci dì e dieci notti da quando ci siamo divisi con un distacco per nulla chiaro.

Sabato scorso quando è venuta al telefono mi ha detto “ti amo tanto”, dunque la situazione disperata del tutto non è.

Però ha pure detto “ti scrivo un espresso”, e da allora sono passati quattro giorni, quattro tutti interi, più tre ore; ebbene, se lo avesse spedito quella sera stessa, come avrebbe fatto qualunque donna mortale innamorata, sarebbe già arrivato. Quella  mi dà tormento”.

Fare aspettare chi ama è la crudeltà di chi non contraccambia l’amore.

 Confrontavo la sera sciagurata che stavo vivendo penosamente con la notte meravigliosa dell’estate remota del 1971 quando su quella stessa terrazza mi destreggiavo tra Helena, la splendidissima finnica  già conquistata, e Josiane la diciottenne di Strasburgo che mi sorrideva con simpatia e mi parlava dicendo bene di me. Allora avevo evitato di compiere un’azione cattiva, e, verso l’aurora, pure Helena, la donna mia scopertasi incinta di un altro, mi aveva benedetto. Donne buone e benefiche. Femmine davvero umane. I loro benefici mi hanno aiutato per tutta la vita seguente. Questo ricordo mi difendeva. Difendersi dal male è ricordare il bene fatto e ricevuto. Per immergermi meglio nel praeteritum mio, andai a camminare sulla pista buia delle mie corse crepuscolari. Meditavo sulle intenzioni oscure di Ifigenia. Alternavo pensieri realistici tipo: “non mi ama di sicuro; se mi amasse avrei già ricevuto almeno tre espressi con parole inequivocabili”,  a illusioni rigurgitate da una  specie di istinto di sopravvivenza di quella relazione già morente se non proprio morta: “ma no, vedrai che domani ti arriva un messaggio pieno di luce”, e pure a meditazioni consolatorie di questo tipo: “se si è innamorata di un tanghero, tanto meglio. Così mi libero da questo ceppo doloroso. Speriamo anzi che il nuovo drudo sia un buffone neozelandese, o un cafone emigrato in America, così colei sparisce per sempre!”

Dopo una mezzora di quel rimuginare vano camminando nel buio,  tornai sulla terrazza della festa e mi appoggiai di nuovo alla ringhiera osservando i ragazzi che ballavano lieti, per trarne conforto. Speravo che qualcuno venisse a parlarmi.

Venne infatti Cornelia, la giovane donna di Berlino est con la quale avevo avuto una veloce avventura mattutina nell’estate del ’ 74, poche ore  prima di incontrare Päivi e di innamorarmene tanto da non volere per diversi mesi nessun’altra donna, e nemmeno una dea immortale.

Perciò con la ragazza tedesca avevo troncato i rapporti amorosi poche ore dopo averli iniziati, non senza spiegarle il motivo. Cornelia non l’aveva presa male, anzi nel 1976 mi ospitò a casa sua con affetto in un appartamento situato vicino al Museo di Pergamo, sulla Unter den Linden.

Così il primo agosto del 1979 la incontravo per la terza volta. Era arrivata da poco. Venne a salutarmi in maniera amichevole che contraccambiai.

Ci raccontammo le nostre vicissitudini. Le dissi che amavo una ragazza italiana; lei mi raccontò che nel frattempo si era sposata due volte e aveva messo al mondo una bambina.

Dopo tale aggiornamento sulle nostre vite anomale, Cornelia disse parole semplici, apparentemente banali eppure dotate di tale forza educativa che voglio riferirtele caro lettore e raccomandartele.

Il discorso della verità infatti è semplice e non necessita di artifici scaltri né di interpretazioni ricamate.

Terminati i saluti e i  ragguagli essenziali, Cornelia disse che mi aveva notato fin dall’inizio della festa, ma non era venuta a salutarmi poiché mi aveva visto prima impegnato a parlare, per giunta con un’altra tedesca, poi mi ero allontanato con aria trasognata.

“A che cosa pensavi, se hai voglia di dirmelo?”

Se fosse stata una possibile preda, avrei risposto: “a te, e a chi se no? A che cos’altro potevo pensare dopo avere visto la grazia di una dea? Volevo venire a chiederti se tu fossi Cipride o Artemide, ma temevo il tuo sdegno di creatura più che mortale per il tentativo di approccio da parte di un pover’uomo quale sono io.”

Invece risposi: “ Alla ragazza italiana che amo. Anche lei, forse mi ama, eppure talvolta ne sento la mancanza in modo innaturale: opprimente e penoso. Talora temo che non sia della mia razza spirituale. Nel dubbio, in amore la risposta è sempre, quasi sempre, quella deprecata”.

Intanto ci eravamo voltati dalla parte dello stadio  e del buio.

I ragazzi che ballavano lieti li avevamo alle spalle.

“Com’è la tua italiana, bella e bruna? Päivi, ricordo era rossa e tutt’altro che italiana”.

Accennai a un sorriso quasi di scusa, poi risposi:

“Sì, bruna, bella assai, e giovane molto. Ha diversi anni meno di me, una decina. Non sono certo che sappia quello che vuole. E’ laureata da poco. Ha cominciato a insegnare in ottobre e non se la cava tanto bene. La vivo un po’ come allieva, un po’ come figlia. Da quando ho perso la bambina che Päivi aspettava, visto che l’hai ricordata tu, nella donna tendo a cercare una figlia. Mi manca molto una figlia”.

Cornelia aveva una trentina d’anni all’epoca, quattro o cinque meno di me.

Alta, troppo magra e troppo bionda per i miei gusti. Però mi piaceva il suo sguardo intelligente. Poi parlava umanamente, precisamente e concretamente, non in modo astratto e generico come fanno i più cui niente sta a cuore davvero. Nel comportamento manifestava una naturalezza signorile, priva di quell’artificio  pretensioso che è caratteristico dell’eterna feccia del mondo.

Conclusi dicendo che ero in pensiero e soffrivo perché non ricevevo posta.

Cornelia ascoltava e mi guardava con attenzione. Tacque un momento, poi mi domandò: “è buona?”

“Spero di sì, ma non ne sono sicuro. Adesso so solo che non mi scrive e con il suo silenzio mi causa dolore ogni giorno. Io poi ne soffro al di là del normale: come non vedo arrivare la posta che aspetto, sento riaprirsi l’antica ferita che senza accorgersene mi infliggeva mia madre quando in agosto mi affidava a sua sorella Giulia la quale da Pesaro mi portava lontano, a Moena, in Val di Fassa, nel Trentino, dove ogni giorno del mese di agosto aspettavo dalla mamma lettere e cartoline che non arrivavano mai. Allora pregavo Dio che la inducesse a scrivermi, e andavo a osservare per decine di minuti l’acqua dell’Avisio che scorreva sui sassi lisci e rotondi. Aspettavo di vedere i salti nell’aria, i tuffi a rovescio delle trote picchiettate di rosa. Li prendevo come segni buoni. Passavo il  tempo così perché non avevo amici a Moena negli anni Cinquanta”.

“Lascia perdere tua madre, la zia, la tua infanzia e le tue nevrosi antiche. Credi ancora di essere una specie di Edipo, il bambino che sopravvive alle malevolenze parentali, poi da adulto diventa un eroe che tuttavia porta i segni delle ferite ricevute da piccolo? La posta può avere ritardo, comunque non deve determinare il tuo stato d’animo. Almeno finché non arriva qualche notizia precisa. Cerca piuttosto di capire se la tua compagna è buona, e se lo è , tiella da conto, Gianni; non chiederti quanto sia bella o ricca, quanto prestigio ti dia, o quanto assomigli o non assomigli a tua madre. Tu devi invece capire, con il cuore prima che con il cervello, quanto sia sensibile, onesta e generosa. La persona buona possiede tutte le altre qualità di cui tu hai bisogno. L’ho capito sbagliando nello sposare il primo marito”.

Tali parole alleviarono il mio dolore poiché erano autentiche, vere e intelligenti più dei miei pensieri penosi.

Perciò la guardai con fiducia piena, con ammirazione, e le dissi: “ Vai avanti Cornelia, ti prego parlami ancora di questo: le tue parole mi curano l’anima”.    

 

Bologna 23 aprile 2024 ore 17, 10 giovanni ghiselli

 

p. s.

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Ifigenia CXLII. La festa sulla terrazza. Giulia e Silvia.


 

 

La sera del primo di agosto c’era una festa sulla terrazza del casinetto di fianco allo stadio. Si beveva e si ballava. C’erano tutti i miei conoscenti e amici di quell’anno 1979 e pure quelli rimasti vivi degli anni passati. C’era anche la bella slava Giulia in forma splendente: i suoi occhi azzurri e i capelli biondi, radiosi, facevano venire in mente il mare di Grecia illuminato dal sole. Mi punse vaghezza di farle la corte e di piacerle poiché Ifigenia continuava a non scrivere infliggendomi una ferita ogni giorno, quando, dopo la scuola, andavo a vedere se c’era posta per me. Una piaga, un’ulcera che mi bruciava dentro e fuori. Sempre più incurabile diveniva.

 La posta c’era  solo per altri. Il vulnus si cronicizzava diventando ulcus che imputridiva e uccideva l’amore.

 Pensai dunque che potevo prepararmi il terreno della ritirata con una corte talmente ben fatta da  consentirmi di prendere una vendetta allegra se colei continuava a negarmi il conforto di qualche riga. Un farmaco necessario oramai.

C’era pure Silvia Virág che mi corteggiava apertamente e mi gratificava  dicendo che le piacevo siccome ero molto diverso dagli altri. Le sorrisi e la ringraziai, ma prima di darle una risposta mi chiesi se la stravaganza fosse davvero un’ottima cosa. Allora non avevo le idèe chiare su questo. Ora rispondo che essere soli e diversi non è bene e non è pienamente umano se è vero che siamo animali politici e linguistici, ma quando il prossimo nostro si spoliticizza e diviene brutale o vegetale, quando  si riduce a un branco di profittatori e parassiti, allora stare da soli a leggere, riflettere, scrivere è la maniera per salvare quanto rimane della propria identità umana e politica lavorando per “Gli uomini dell’avvenire: “essi saranno la mitezza e la forza”, ha scritto in una cara poesia,  József Attila .

“Saranno sempre in attesa di ospite imprevisto : anche per lui prepareranno il desco e gli apriranno il cuore”.

A Silvia dissi che non mi spiaceva essere differente dagli altri, anche se tale difformità mi era costata solitudini lunghe e difficili. Il corso estivo di Debrecen, aggiunsi però, è sempre stato un ambiente strano e consolatorio per me, siccome frequentato da studiosi di materie umanistiche provenienti da quasi tutte le Università europèe, un posto bello dove si potevano trovare persone inclini al pensiero e curiose di imparare; viceversa  frequentare la gente usuale diseducata dalla pubblicità e dalla propaganda, infarcita di luoghi comuni, ascoltare banalità e menzogne, significava perdere tempo, il bene più prezioso di questa breve esistenza. Di qui la mia solitudine cronica e la mia diversità da anacoreta desideroso di imparare.

“Tuttavia non dispero che un giorno, forse in seguito a qualche catastrofe espiatoria e catartica, o all’opera di un demiurgo geniale, rinasca un ethos politico tra la gente comune, che dalle rovine del ’68 e magari dai testi della Grecia classica, risorga un popolo capace di pensare e sentire umanamente; allora la preparazione che sto costruendo in me stesso, con anni di lavoro solitario, forse potrò impiegarla in favore delle donne e degli uomini tornati umani”.

“Dovresti scrivere-disse la ragazza tedesca mal maritata con l’ ungherese Virág e separata da lui pur mantenendone il cognome che significa fiore .

“Ci penserò. Lo farò di sicuro quando avrò qualcosa di preciso da dire se allora avrò a arricchito il mio linguaggio, trovato uno stile mio e ne sentirò la necessità”, risposi a Silvia, un’altra possibile vendetta allegra.

 

Bologna 23 aprile 2024 ore 16, 37 giovanni ghiselli.

p. s.

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